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Biografia
SERGIO PICCOLI nato a Verona nel 1946 dove vive e lavora.
Colorista per vocazione, inizia a dipingere i suoi primi quadri nel 1972 mostrando quasi subito grande interesse per l’astrattismo. Vince il premio Burano nel 1976. Frequenta un corso di grafica pubblicitaria nel 1978. Esegue nel 1979 un grande murale per la Stazione Centrale di Verona. Nel 1987 è invitato a esporre una serie di lavori eseguiti su carta presso la City University di Chicago. Nel 1989 l’America¬Italy Society di New York lo ospita a Broadway in un grande studio dove esegue 37 lavori (esposti in due personali). Nel 1991 si reca a Mosca su invito del Ministro della Cultura sovietica dove allestisce una grande mostra alla Galleria Arbat e tiene anche una conferenza sul colore. Verso la fine del 1997 l’architetto Rinaldo Olivieri lo chiama per dipingere una serie di grandi affreschi dal titolo “il cielo di Tespi” all’interno del nuovo teatro Camploy di Verona.
Nel 2001 Giovanni Martinelli gli commissiona un grande affresco intitolato “Infinito” all’interno del nuovo teatro di Sandra dedicato a “Diego Martinelli” che terminerà nel maggio del 2002. Nel maggio 2003 il Museo Bargellini di Pieve di Cento acquista per la propria collezione permanente due opere di grandi dimen¬sioni. Nel giugno 2004 la Fondazione Cariverona per arricchire la propria collezione privata richiede all’artista due nuovi lavori.
Presentazione critica
Il centro dell’opera si è trasferito alla periferia. La frontiera della forma è stata elusa e lo spazio della pittura attraversa tutta la scena del quadro, senza registrare aggressive insorgenze o devianze, ma solo caute mobilità di percorso: vaghi segni di passaggio o passaggio vago di segni. Colpisce più l’estensione e la distensione della superficie pittorica che la sua segreta tramatura, che pare sempre ridotta a un battito leggero, ad un semplice presentimento di spessore materico. (Luigi Meneghelli, 1982).
Mi sono chiesto spesso che valore intendano avere le “slabbrature” pittoriche ai margini delle tele di Piccoli: mi riferisco a quella sorta di svelamento degli strati pittorici che delimita e circonda la superficie. E mi è subito parso di poter negare quella valenza analitica che invece ha per molti anni interessato i suoi colleghi romani o milanesi, e in ogni caso un’intera generazione culturale di pittori europei. Gli “svelamenti” perimetrali di Piccoli hanno tutt’altra origine: essi sono la premessa e insieme la “dichiarazione” di un sogno, di un evento pittorico sospeso sulla soglia dell’improbabilità: all’interno del perimetro, come una bolla d’aria e di luce scaturita dalla pietra filosofale, la polvere della pittura si rapprende sulla tela, si sposa con la realtà percepibile della materia eppure sfugge alle sue leggi quotidiane. Sortilegi, dicevo; magie della pittura: perlomeno di questa pittura. (Giorgio Cortenova , 1996).
Affermare è dire con convinzione e non prevalere: così ero certo di vivere il viaggio mentre dentro lo studio congiungevo il mio con quello del pittore disteso sulle pareti o, di rimbalzo, appoggiato sul pavimento forse per una riflessione priva di sentimentalismi. I grandi spazi colorati davano certezza di poter con loro viaggiare all’infinito, ma insieme anche necessitavano di attese, intanto che il pensare entrava nel tema amorale e cinicamente affilato della luce insensibile ai sentimenti nella sua prova conclusiva. Luce che pur essendo tempo lo sorvola, spostando le conseguenze di una verifica totale nell’episodio naturale, quindi stagionale in continuazione. Se lo studio era un set cinematografico, io potevo essere – fatte le proporzioni – la macchina da presa che registrava l’evento tuttora vivo della pittura, mentre il movimento del pittore al lavoro dava corpo alla prima stesura di un quadro in divenire, accanto ai barattoli dei colori, ai recipienti colmi d’acqua e solventi dove erano i pennelli di varie fogge e grandezze. Così mentre Sergio chino al pavimento ritornava un arabo nei rituale di una Mecca fertilmente provocabile, io correvo da lui ai quadri, fintanto che anche i quadri sobillavano percorsi in andata e ritorno venendomi incontro, mutando punto di vista con il prevalere delle ombre reali su quelle simulate delle lampade. (Alessandro Mozzambani, 1985).